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Un fiore nella notte

Ore 01.13 del mattino. 

Squilla il telefono del servizio di emergenza. 

Ci svegliamo subito.

Il collega risponde.

Codice giallo.

Donna, 97 anni con vomito e dolore allo stomaco, in abitazione. Può essere tutto e niente. 

Usciamo un po’ stanchi e assonnati. In ambulanza il silenzio ci accompagna nel deserto della notte fino al luogo dell’intervento. Quattro minuti e siamo sul posto.
Intorno a noi regna il buio. Il freddo e l’umidità fanno da cornice al solito silenzio notturno, tipico di quei luoghi di campagna dove tutto appare immobile e immutato da decenni.

Entriamo in casa. 

Nella camera da letto, una signora esile e minuta, è sdraiata nel letto e subito notiamo l’imbarazzo dovuto al fatto di trovarsi soccorsa da tre uomini in quello che è il suo luogo più sacro e intimo: casa sua.  

La aiutiamo e cerchiamo nel modo più delicato possibile di non oltrepassare quella linea sottile oltre la quale si sentirebbe ancora di più a disagio. In dieci minuti effettuiamo tutti i controlli di routine, sempre cercando di fare estrema attenzione. Lei appare sempre perfetta, nella sua dolcezza e nella sua umiltà. Cerca di non dare fastidio, è evidente. Le dispiace averci disturbato, ma pian piano cerchiamo di entrare in contatto con lei e gradualmente si affida a noi.
La carichiamo in barella e con un codice di bassa gravità ci avviamo verso la struttura ospedaliera indicata dalla Centrale Operativa. 

Durante il viaggio acquista fiducia e smette di chiedere della nipote che nel frattempo ci segue con la macchina. 

Ci chiede un fazzoletto e invece le diamo un sacchetto. Non lo pretende. Chiede per favore, anche tra un conato e l’altro. Con lo sguardo rivolto altrove, appena sta meglio mi dice “grazie”. Non incrocia mai il mio sguardo, si vergogna, ma vuole comunque essere educata. Ancora conati. Non pretende un altro sacchetto, ma semplicemente lo chiede di nuovo con cortesia. Mi commuovo.  

“Per favore”, “posso”, “grazie”…

Sono commosso: in 47 anni non credo di aver mai incontrato una creatura tanto gentile. Mai scorderò i suoi occhi.

Quando finalmente la nausea si placa, cominciamo a conversare.
Mi racconta che abita lì da 97 anni; dei sacrifici e della povertà dovuti alla guerra e che in fin dei conti un po’ di vomito non ha mai ucciso nessuno. 
Mi racconta di quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, nascondeva uomini, donne e bambini, qui, nella campagna piacentina, per portarli via alla furia nazista. Anni duri quelli, disseminati di sacrifici, umiliazioni, privazioni e pieni di paura, ma nonostante tutto, caratterizzati dalla forza e dal coraggio di aiutare comunque gli altri. Essere quelli che vengono definiti “Giusti” comporta affrontare grandi paure e pericoli, nonostante l’esile statura che tanto la caratterizzava.
Mi racconta tutto ciò senza mai alzare lo sguardo, con grande umiltà.
Mi racconta tutto ciò come se fosse la normalità. Semplicemente la sua normalità e forse, quella che ogni essere umano dovrebbe portare dentro di sé.
Finalmente mi guarda e mi sorride. Io non so cosa dire. Mi sento solo pieno di vita. 

Con gli occhi lucidi arriviamo in ospedale. La sbarelliamo, la guardo e le accarezzo il viso. Lei mi sorride e le lacrime cominciano ad incorniciare il mio volto. Ringrazio Margherita. Si chiama come un fiore; un esile fiore che ha salvato tantissime vite. Un fiore più forte della guerra, dei nazisti, del male. 

Non scorderò mai Margherita. Credo fortemente che quella notte, in quella mezz’ora di tempo, sia stata lei a soccorrere me e la mia anima, facendomi comprendere quanto siamo fortunati oggi proprio grazie a persone come lei.
Grazie Margherita. 

Pubblica Assistenza Caorso – Castelvetro – Monticelli

 

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