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MICHELE

Il primo servizio con una bombola d’ossigeno Lorenzo se lo ricorda ancora, anche se sono passati più di otto anni. L’aveva fatto insieme a Michele, il suo maestro, che in quel primo mese di Servizio civile aveva passato la maggior parte del tempo a incalzarlo, sgridarlo e a insegnargli a fare le cose per bene, con le mani e con la testa, diceva sempre. In quegli anni si facevano meno corsi di formazione e si imparava soprattutto così.

Il servizio prevedeva il trasferimento di Denise, una bambina di sette anni, dall’ospedale di Carpi alla Pediatria di Pavullo. Quando la videro arrivare in barella, la bombola su un lato, accompagnata dalla madre e da un’infermiera, Lorenzo percepì un moto di sconcerto nel suo mentore, qualcosa che forse andava oltre la preoccupazione per la salute della piccina. Una specie di conferma di questo turbamento arrivò quando Michele tagliò corto sulle presentazioni, facendo sistemare le passeggere con il minor numero di parole possibili. Raccomandò solo a Lorenzo di fare attenzione al gorgogliatore e, una volta partiti, di concentrarsi solo ed esclusivamente sul vano sanitario; al minimo problema avrebbe fermato l’ambulanza. Era una mattina uggiosa di febbraio e la nebbia aveva cominciato a diradarsi solo dopo Maranello. Il traffico della statale per l’Abetone era denso e incalzante, ma Michele prendeva le curve così lente che ogni volta Lorenzo temeva si sarebbe spento il motore.

Arrivarono a Pavullo in una muta e tesissima ora e mezza, scesero dall’ambulanza e, una volta aggiunta una terza trapunta sul corpicino di Denise, sganciarono la barella più lentamente possibile. Michele sembrava un passo oltre la concentrazione, le mani si muovevano con la consueta precisione robotica ma la testa era altrove, lo sguardo basso, vacuo, sembrava ipnotizzato dai timidi movimenti del diaframma della piccina. Quando fu il momento di affidarla agli infermieri di Pavullo mollò la presa dalla barella con qualche secondo di ritardo, facendola sbandare leggermente: il primo errore di distrazione che gli avesse mai visto fare. Si congedarono dalla madre in fretta, poi Lorenzo si mise al volante. Michele sembrava un po’ meno catatonico, forse addirittura sollevato.

Al placido digradare della statale verso la pianura cominciò a scendere anche l’adrenalina e i due decisero di fermarsi in un bar a Torre Maina per tappare il buco che gli si era aperto nello stomaco. Optarono per una colazione rinforzata, un paio di panini e un bicchiere di birra a testa, ci voleva. A ogni boccone Michele sembrava tornare progressivamente in sé, e mentre addentava il secondo panino gli occhi cominciarono a brillargli come quando si preparava a raccontare una delle sue storielle, mentre spostava lo sguardo da un avventore all’altro in cerca di qualche ispirazione. Anche Lorenzo si sentiva più rilassato. Ritrovata un po’ di lucidità per riflettere su quella strana reazione del suo maestro, riordinò le informazioni.

Una settantina d’anni, nato a Milano in una famiglia di origine beneventana, a vent’anni si era trasferito a Carpi per amore. Aveva conosciuto sua moglie nel ’70, durante una manifestazione; lui era finito a terra e aveva rischiato di soffocare in mezzo ai lacrimogeni, Ada lo aveva scosso ed era riuscita a trascinarlo poco lontano, dove pian piano aveva ricominciato a respirare a ritmo regolare. Una volta, si ricordò Lorenzo, gli aveva anche raccontato qualcosa del padre: era stato licenziato dal macello comunale ed era finito a fare il custode del Pirellone; quando Michele era ancora un bambino lo portava in cima ai 127 metri di quel grattacielo, era il loro posto speciale, dove anche nella Milano degli anni sessanta si respirava aria pulita. Ah ecco, sì, Michele sosteneva di essere asmatico perché era nato in viale Molise, proprio di fronte al macello comunale, e che i suoi bronchi avevano deciso di chiudersi per proteggerlo da quella nuvola di carbone, smog e tanfo di carniccio. Dopo un mese di chiacchiere era tutto quello che sapeva di lui. Quel suo comportamento bizzarro era dunque legato alla faccenda dell’asma? I volontari con un po’ di esperienza lo dicono tutti: una delle cose migliori della Croce Blu è l’opportunità di entrare in contatto con quello che sarai, con i problemi che potrai incontrare più in là con gli anni, ma anche con l’idea che ci sarà qualcuno a prendersi cura di te. Gli era bastato vedere quella bambina con la bombola per ridursi così?

 

Come se avesse sentito la domanda, Michele cominciò a parlare, forse merito della birra: «L’hai vista quella bimba? Brutto affare, eh? Io della bombola non ho mai avuto bisogno, neanche quando mio padre mi portava in cima al Pirellone per farmi passare l’asma. C’era una bella aria lassù, che riempiva i polmoni di ossigeno, e poi la pace, la sensazione di essere tra le nuvole, distante dal baccano della metropoli, quel silenzio… Quando sono arrivato a Carpi non sapevo come fare. Io e mia moglie abbiamo girato tutta la città ma il massimo che abbiamo trovato è stato un palazzo di sette piani. E questo sarebbe un grattacielo? ho pensato. Ma alla fine siamo andati ad abitare lì, vicino allo stadio. Nonostante l’umidità e l’aria da palude, dal momento in cui sono andato a vivere con Ada ho respirato bene anche al livello del mare. Solo qualche volta, quando rientravo da uno dei miei lunghi viaggi da rappresentante, tornavano i fischi, gli occhi gonfi, tutti i sintomi dell’asma insomma. Tornavo tardi, e trovavo sempre Ada addormentata nel letto. Allora appoggiavo qualche cuscino alla testiera e mi sedevo accanto a lei senza nemmeno cambiarmi, le davo un bacio sulla fronte e stavo ad ascoltare il suo respiro. Piano piano regolavo il mio al suo — sai come si deve fare ogni tanto con i vecchi orologi? –, e nel giro di qualche minuto l’asma scompariva».

Una pausa per l’ultimo sorso di birra.

«È morta un sabato sera di tre anni fa, ero sveglio accanto a lei e ho sentito il suo respiro, che col diabete non era più il soffio regolare di una volta, troncarsi all’improvviso. Un infarto. Ho provato a rianimarla ma ho lasciato perdere in fretta, con tutti i corsi di primo soccorso che ho fatto ho capito subito. Così ho passato una domenica tranquilla, una domenica piovosa. Sono stato seduto in camera da letto a godermi il silenzio. Invece di alzarmi per chiamare l’ospedale sono rimasto lì a fissare le mie dita; dopo qualche minuto mi sono accorto che tremavano impercettibilmente, poi sempre di più. Ho pensato al Parkinson. Poi ho provato a fermarle, a muoverle, e riuscivo a fare tutto, non ero malato. Era Ada che se ne andava da me, evaporava dai polpastrelli, se ne stava andando per sempre. Così mi sono convinto di essere diventato inutile, di essere diventato nessuno. Sono rimasto seduto sul letto a guardarmi le dita fino a sera, quando hanno smesso di tremare, ed ecco, a quel punto è arrivato il primo sibilo di asma, atteso, quasi innocuo. Ho pensato che se avessi trattenuto il respiro come quando uscivo di casa per andare a lavorare, se riuscivo a trattenere il respiro fino alla fine dei miei giorni, forse me la sarei cavata anche senza di lei. Ma forse mi sono sbagliato a pensare così.»

 

Tratto da “Il tempo degli altri – quindici storie della Croce Blu” di Mattia Cavani 

Croce Blu Carpi

 

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